Sudafrica: un eco-quartiere per favorire coesione sociale e rispetto dell’ambiente

È nata come un ghetto in cui rinchiudere la popolazione nera di Città del Capo durante l’Apartheid. Dopo la fine del regime segregazionista si è trasformata in un sobborgo degradato, in cui indigenza, disoccupazione e criminalità rappresentano la realtà quotidiana per i suoi 200mila abitanti. Oggi però la cittadina di Atlantis è divenuta la sede di un rivoluzionario progetto che potrebbe finalmente cancellarne l’oscuro passato.

Rispetto dell’ambiente, risparmio energetico e uso delle fonti alternative sono le pietre angolari di questa innovativa proposta - sviluppata nell’ambito del Programma per lo sviluppo e la ricostruzione con il coinvolgimento delle università di Cape Town e Johannesburg, l’impresa Peer Africa e diverse ong - che punta a costruire un eco-quartiere nel cuore di Witsands, la zona periferica più povera della città, fornendo un alloggio a 2.400 famiglie senza tetto.

 

Dotate di ampie finestre esposte a Nord per sfruttare il calore del sole durante il periodo invernale e di un tetto sporgente per proteggerle dalla violenza dei raggi uva nei mesi estivi, le green house sono realizzate in modo da garantirne la massima efficienza energetica, la minor dispersione di calore e il più basso impatto ambientale in fase di costruzione.

La consegna delle prime 350 case è servita agli abitanti del quartiere a familiarizzare con questi nuovi modelli di luoghi abitativi. E nel giro di poche settimane alla diffidenza iniziale è subentrato un entusiasmo crescente. “Siamo i più poveri tra i poveri. Ma usiamo la natura per riscaldare o rinfrescare le nostre case. Abbiamo i pannelli e gli scalda acqua solari, così risparmiamo energia. Ogni famiglia non spende più di 50 rand (circa 6 dollari, ndr) al mese per l’elettricità”, ha spiegato alla stampa locale Fundiswa Makeleni, una delle cittadine coinvolte nel progetto.

Oltre ai vantaggi economici e ambientali, però, i fautori dell’iniziativa mirano anche all’affermazione di un nuovo modello di socialità. “Non si tratta solo di costruire case, ma di costruire una comunità”, ha sottolineato Beth Basset, portavoce di una delle ong che seguono il programma.

Il progetto, dunque, è partito con il piede giusto. La sfida, adesso, è fare in modo che nel giro di poco tempo possa reggersi sulle sue gambe e che diventi replicabile in contesti analogamente disagiati.

Jennifer Zocchi