Ripensare il concetto tradizionale di povertà, includendovi anche l’esclusione sociale e l’impossibilità di far valere i propri diritti. Modificare la logica alla base dell’assistenza e del sostegno ai bisognosi, considerandoli non soggetti passivi, ma coinvolgendoli attivamente in tutte le iniziative di aiuto. Introdurre nuove forme di intervento contro l’indigenza basate su progetti di lungo periodo in grado di coordinare i singoli sforzi per massimizzare i risultati. Non sono solo i numeri e le statistiche il punto di forza dell’ultimo rapporto curato da Caritas Italiana e Fondazione Zancan e presentato nei giorni scorsi a Roma.
Ipnotizzati dalla forze delle cifre, giornali, televisioni e siti di tutta la Penisola si sono limitati nella maggior parte dei casi a fornire il quadro di un’Italia sempre più povera e indebitata, in cui un crescente numero di famiglie e persone stenta ad arrivare alla fine del mese. In effetti i dati sono impressionanti: nel Paese i poveri sono aumentati dai 7,810 milioni del 2009 (pari al 13,1 per cento della popolazione), agli 8,272 milioni del 2010 (pari al 13,8 per cento). Oltre alle cifre della miseria, però, il dossier contiene una serie di spunti e di riflessioni su cui è necessario soffermare l’attenzione per comprendere cosa si nasconde esattamente dietro percentuali e misurazioni.
La povertà non è solo economica. Il primo dato che colpisce è quello relativo all’aumento della povertà relativa. Nel 2010 questo valore è cresciuto tra le famiglie di 5 o più componenti (dal 24,9 al 29,9 per cento), tra le famiglie monogenitoriali (dall’11,8 al 14,1 per cento), tra i nuclei residenti nel Mezzogiorno con tre o più figli minori (dal 36,7 al 47,3 per cento) e tra le famiglie di ritirati dal lavoro in cui almeno un componente non ha mai lavorato e non cerca lavoro (dal 13,7 al 17,1 per cento). L’indigenza è aumentata anche tra le famiglie che hanno come persona di riferimento un lavoratore autonomo (dal 6,2 al 7,8 per cento) o con un titolo di studio medio-alto (dal 4,8 al 5,6 per cento). “La povertà colpisce con particolare violenza le famiglie numerose, con più di due figli. Senza un adeguato sostegno, le famiglie non saranno incentivate a fare figli e le ripercussioni a livello demografico saranno pesanti”, sottolinea lo studio. Ad essere colpiti da crescenti difficoltà però sono anche quei soggetti che non riescono a crearsi una propria famiglia, i giovani esclusi dal mondo del lavoro e gli anziani rimasti soli. Tutte persone che vedono messo in discussione il diritto alla casa, all’impiego, all’alimentazione, alla salute, all’educazione e alla giustizia.
Ripensare l’assistenza. Per migliorare la condizione dei poveri presenti oggi in Italia la prima mossa da fare è “incrementare il rendimento della spesa sociale”. La logica fin qui adottata dalle istituzioni e basata sul trasferimento di fondi e denaro senza la responsabilizzazione dei soggetti destinatari ha dato vita a interventi “standardizzati, di tipo burocratico, che non guardano l’effettiva condizione delle persone, ma solo alle carte”. Perché gli interventi funzionino è necessario smettere di considerare i poveri come soggetti passivi destinatari di un aiuto assistenzialistico, coinvolgendoli attivamente in progetti e iniziative che mirano al loro sostegno.
Creare impiego. “Un modo di aumentare il rendimento della spesa sociale è la professionalizzazione dell’aiuto”, si legge nel rapporto. Oggi, ad esempio, gli oltre 100 miliardi di euro destinati ai servizi sanitari sono trasformati in centinaia di migliaia di posti di lavoro. Lo stesso criterio potrebbe essere applicato alla spesa per servizi sociali, di modo che “molte donne con figli e molti giovani uscirebbero dalla disoccupazione e dalla povertà lavorando a servizio degli altri”.